A settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, ci siamo chiesti quale fosse il suo rapporto col cibo. Lo abbiamo fatto cercando un po’ di indizi tra le pieghe della sua Commedia, con un pizzico di leggerezza.
DIVINA COMMEDIA, ETERNO POETA
Settecento anni fa a Ravenna moriva Durante di Alighiero degli Alighieri – o, nella versione “per gli amici” con cui lo conosciamo tutti, Dante Alighieri – l’uomo che più di ogni altro ha contribuito a plasmare la lingua, l’immaginario e, in definitiva, la cultura italiana tout court. E, d’altronde, non per nulla il buon Durante si è guadagnato l’appellativo di Sommo Poeta: “Il Convivio”, “La Vita Nova”, “Il De Vulgari Eloquentia” e soprattutto l’eterna “Divina Commedia” sono rimasti, per nostra immensa fortuna, a testimonianza di una mente geniale la cui produzione oltrepassa i secoli e sconfigge il tempo.
Ma se è vero che ascoltare i divini canti della Commedia è già di per sé fonte di autentico benessere, appare altrettanto chiaro che il Sommo non dovesse essere il più quotato quando si trattava di scegliere chi invitare a cena il sabato sera: austero e perennemente accigliato, frugale e rigoroso nella sua tunica rossa, da raffigurazioni e descrizioni dei contemporanei il buon Dante non appare proprio come l’amicone che anima la serata. Né, d’altronde, come quello che la cena la prepara: sebbene in quel periodo cominciassero a fiorire i primi ricettari (il “Liber de Coquina” è degli inizi del ‘300), al poeta fiorentino il cibo non interessava se non come mezzo di mero sostentamento. Anzi, un po’ lo disprezzava.
PAGA E ANDIAMOCENE, QUESTO POSTO È UN VERO INFERNO
Prova ne sia il ruolo che il cibo assume all’interno della Divina Commedia: tra ignavi, traditori e accidiosi, Dante dedica un girone infernale anche ai golosi, costretti per contrappasso a rimanere spiaggiati sotto una nera e fetida pioggia (sulla cui consistenza e composizione pensiamo sia opportuno più non dimandare). È tutto l’ambito culinario, però, che nell’Inferno assume una connotazione piuttosto splatter: i diavoli cuociono i violenti nel sangue, mentre i barattieri vengono spiacevolmente tenuti sotto una coltre di pece bollente. Insomma, se – per citare Mark Twain – al Paradiso pensaste di preferire l’Inferno per la compagnia, sappiate che le recensioni su Tripadvisor non sono confortanti.
In Paradiso, invece, il menù cambia: dove l’amore move il sole e l’altre stelle il cibo c’è ancora, e anche la golosità, ma stiamo parlando di fame di beatitudine, di teologia. Il pane, che tanto viene disprezzato all’Inferno, tra i cherubini diventa appunto “pan degli angeli”, e rappresenta la contemplazione estatica del divino. Non si nutre il corpo, qui nelle sfere celesti, ma ci si arricchisce l’anima al cospetto di Dio: una differenza niente male, pari a quella che va dallo sfamarsi con una pizza al taglio al cenare in un tre stelle Michelin.
IL CIBO PIÙ BUONO DEL MONDO
Insomma, scherzi a parte, Dante ci ha lasciato un maestoso testamento letterario, ma dal punto di vista culinario si riconferma personaggio piuttosto frugale. Tanto è vero che si narra un famoso aneddoto secondo cui, in una delle sue passeggiate domenicali, un passante a lui sconosciuto gli chiese quale fosse il cibo più buono del mondo. Il Poeta rispose: “Un uovo”. L’anno dopo, nello stesso punto, lo stesso passante lo ritrovò e gli chiese a bruciapelo: “Con cosa?”. E il Nostro, che godeva di un’ottima memoria, fu altrettanto veloce nel rispondere: “Col sale”.